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Morire per tornare a vivere ancora

La Quaresima ormai è incipiente, il peso morale e psicologico della penitenza già incombe su di noi. Un tempo apparentemente lungo e sofferto sta per cominciare: è lo spazio necessario che ci separa e prepara alla Santa Pasqua.

La meditazione che ho sentito di dover offrire a voi miei Confratelli della Buona Morte e più in generale a chiunque ne sia interessato, quest’anno la vorrei incentrare sull'insegnamento che ci offre il Patriarca San Benedetto (terzo patrono della nostra Compagnia) nella sua Santa Regola. È singolare infatti che la sua festa (21 Marzo) cada inevitabilmente ogni anno all'interno del Tempo di Quaresima quasi a rimarcarne l’importanza drammatica, e incoraggiandoci al contempo nella sua fedele osservanza.

San Benedetto dice che “che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale” (Regula, XLIX, I) ma rivolgendosi direttamente ai monaci non intende dire che per gli altri cristiani la vita può essere vissuta in un clima un po’ meno quaresimale ed anzi un po’ più come un carnevale, saremmo lontani dal cuore di Cristo se lo pensassimo. Chiunque, infatti, padre o madre di famiglia, laico o chierico, il sano ma afflitto nell'anima al pari dell’ammalato crocifisso in un letto di dolore vive e assapora fino in fondo la drammaticità della vita umana. Nessuno è esente dal fardello dell’esistenza.

E che la vita umana sia, volenti o nolenti, un vero e proprio “tempo di quaresima” lo sperimentiamo quotidianamente nelle incombenze, incomprensioni, fatiche, fallimenti, paure ed ansie di cui le nostre giornate sono costellate. Ad esempio, un padre e una madre che si svegliano nel cuore della notte per occuparsi del loro bimbo piangente rompendo il necessario riposo, sopportando per amore del Signore la stanchezza opprimente mentre vegliano accanto al letto dei loro figli un attimo prima che il gallo canti e il peso del nuovo giorno già corra loro incontro, non fanno altro che vivere quello che San Benedetto prescrive ai suoi monaci, e la Scrittura a tutti i cristiani: “Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode” (Sal 118,62). Poiché per i genitori è questo il modo proprio e specifico di essere cristiani, essere fedeli ai sacrifici della vita matrimoniale, solo così possono dar gloria a Dio.

Tale è la bellezza ed unicità salvifica della vita cristiana, ogni sofferenza anche la più piccola può e deve divenire non un ostacolo all'unione con Dio, come vorrebbe lo stolto quando nel suo cuore dice «se esiste il dolore e la morte Dio non esiste», ma bensì la strada maestra per penetrare nel suo Cuore. San Tommaso conclude il trattato sul male in una maniera quasi scandalosa per il mondo incredulo di ieri e di oggi: “SI MALUM EST, DEUS EST” – se esiste il male, Dio esiste (Contra Gentiles, 1. III, c.71).

Mentre il mondo fugge la sofferenza, la morte ed ogni patire il cristiano gli va incontro, li abbraccia tutti stringendoli a sé e li bacia come l’ancora della propria salvezza. Il cristiano, vale a dire il vero imitatore di Cristo che ha ricevuto il diritto e il privilegio di essere chiamato con il nome del Figlio di Dio, è precisamente colui che porta nel suo corpo il morire di Gesù (Cfr. 2Cor 4,10). A tal proposito le Fonti raccontano che San Francesco amava i luoghi più solitari e impervi andandosi ad annidare nelle fenditure della roccia perché, diceva, voleva nascondersi nelle piaghe di Gesù, alla cui morte “la terra tremò e le rocce si spezzarono” (Mt 27,51).

Personalmente credo che la principale e in un certo senso più santificante forma di penitenza sia quella che San Benedetto da padre buono e saggio prescrive ai suoi figli quando dice loro: “sopportino con grandissima pazienza le proprie miserie fisiche e morali” (Regula, LXXII, V). E noi tutti sappiamo quanto anzitutto abbiamo da perdonare a noi stessi, quanto siamo noi per primi peso a noi stessi come sospira Giobbe nella sua angoscia: «factus sum mihimet ipsi gravis». La verità è che la nostra prima frustrazione e fonte di sofferenza è la nostra incapacità di soffrire, vale a dire la nostra fragilità molto spesso emotiva che ci rende duro e a volte impossibile l’affrontare virilmente il patire che avvolge l’uomo come una ragnatela in questa breve vita. Eppure la differenza tra un cristiano e un uomo qualunque non è come alcuni credono banalmente che il primo non sente la sofferenza, ma esattamente il contrario. Il cristiano sente la sofferenza fino in fondo come qualsiasi uomo ed anzi l’assapora gustandone la dolcezza alla bocca e la tremenda amarezza nell’inghiottirla: “Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo»”. E questa è l’anima della fece cattolica. Noi infatti non siamo buddisti, non crediamo cioè che il male assoluto sia il desiderio e la sofferenza che da esso deriva, rifiuto così radicalmente anticristiano, quindi anticristico, che consiste nel continuo tentativo e sforzo di eliminare la sofferenza da questo mondo a costo di eliminare, con essa, l’uomo medesimo. Non esiste infatti l’uno senza l’altra. Tentando di estirparla infatti non è solo la sofferenza che si vuole negare ma la realtà stessa, la vita e l’uomo. Noi cristiani invece la sofferenza non solo non dobbiamo fuggirla ma siamo chiamati, unici fra gli uomini, ad amarla, onorarla e, in un certo senso, invocarla su di noi. Mi ricorderò sempre la commozione che destarono in me le parole di San José Maria Escrivà quando ad una madre che aveva perso in maniera assurda, irragionevole, inaccettabile il suo figlioletto innocente disse con amore: “Benedetto sia il dolore. Amato sia il dolore. Santificato sia il dolore. Glorificato sia il dolore”. Allora mi parvero, e tutt’ora mi paiono, come lo scuotimento violento di un albero alle sue radici, un albero avvizzito e ripiegato su se stesso che pur di non provare la sofferenza della potatura preferisse morire soffocato sotto il peso delle proprie fronde orgogliose e sterili. Ma la Quaresima sta a ricordarci “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

La differenza tra un cristiano e un uomo qualunque è che il primo deve saper soffrire e sa perché soffre, il suo dolore quindi non è semplicemente subito ma voluto. Difatti la Redenzione che Iddio è venuto ad offrirci liberamente è anzitutto una via da percorrere, non una semplice conoscenza, ma la via drammatica della Croce, la passerella dei condannati, il tragitto che ci conduce al patibolo, la sfilata infamante che Egli per primo ha voluto percorrere (Cfr. 1Pt 2,21). Non c’è nulla di romantico o di sentimentale nella Croce quanto piuttosto il pulsare reale e vivido del dolore causato dal peccato e sanato dall’amore. Un cammino umiliante che macerò il corpo del Logos incorporeo, una discesa nel grembo della morte dall'Eternità del seno del Padre e del Santo Spirito fino nel mezzo di una folla di creature per Lui insignificanti che lo ricoprono d’ingiurie, sassi e sputi. Lo spettacolo che la religione cristiana offre al mondo è tutt’altro che allettante per un’umanità assuefatta al piacere e al godimento, schiava del peccato e di Satana. Questa è la condizione dell’umanità decaduta: ciò che non possiede l’essere disprezza e sputa sopra Colui che è l’Essere, quello che è creato crocifigge l’Increato e mentre l’ignobile si spinge fino al disprezzo dell’Altissimo il cristiano deve, come dice San Benedetto, “non anteporre nulla all’amore di Cristo”. Ed è precisamente per questo che il Santo Patriarca dice che bisogna «amare il digiuno» (IV, XIII) e non soltanto “patire il digiuno”. L’amore infatti è il motore del patire cristiano, e il dono della fede dalla quale soltanto deriva la salvezza dell’uomo non si realizza attraverso una sorta di sforzo stoico o di virtù pelagiano-kantiana ma bensì nell’abbracciare per amore tutto ciò che proviene dalla mano del Padre: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?” (Gb 2,10). Ogni cosa – la gioia e il dolore, le conquiste e le perdite, il premio e il castigo, la riconoscenza e l’ingratitudine – assume in Cristo un valore di medietas vale a dire di mezzo per raggiungere il fine, che è Dio e l’unione con Dio.La differenza tra un cristiano e un uomo qualunque è che il primo deve saper soffrire e sa perché soffre, il suo dolore quindi non è semplicemente subito ma voluto. Difatti la Redenzione che Iddio è venuto ad offrirci liberamente è anzitutto una via da percorrere, non una semplice conoscenza, ma la via drammatica della Croce, la passerella dei condannati, il tragitto che ci conduce al patibolo, la sfilata infamante che Egli per primo ha voluto percorrere “per lasciarci un esempio” (Cfr. 1Pt 2,21). Non c’è nulla di romantico o di sentimentale nella Croce quanto piuttosto il pulsare reale e vivido del dolore causato dal peccato e sanato dall’amore. Un cammino umiliante che macerò il corpo del Logos incorporeo, una discesa nel grembo della morte dall’Eternità all'Eternità del seno del Padre e del Santo Spirito fino nel mezzo di una folla di creature per Lui insignificanti che lo ricoprono d’ingiurie, sassi e

Bisogna ricordare che il Santo Patriarca di Montecassino nel redigere la Regula non si rivolge a degli individui “speciali”, a delle lodevoli ma pur sempre eccezioni in mezzo alla massa di cristiani “normali” con cui di solito s’intendono gli intiepiditi, ma si rivolge propriamente a tutti coloro che desiderano essere dei cristiani autentici. Non ci nascondiamo che spesso nell'immaginario comune si è portati a concepire un’idea distorta quasi idealizzata di coloro che, uomini e donne, offrono le loro vite in un completo olocausto a Dio, quella cioè di una sorta di ceto sovrumano, un’immagine che, ad essere onesti, tende ad esimerci da una più seria e radicale osservanza dei precetti evangelici per riservarli a “pochi eletti”. Invece San Benedetto senza alcun timore di offendere i pusillanimi dice: “Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell’obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore” (Prologo, III). Costoro, dice il Santo legislatore, devono «avere sempre dinanzi agli occhi la possibilità della morte» (IV, XLVII). E il motivo di questa continua meditatio mortis a cui ogni cristiano, uomo o donna, consacrato o sposato, giovane o vecchio è chiamato, è molto semplice: “Se non farete penitenza, – dice Colui che ha scelto la Croce per salvarci – perirete tutti quanti” (Lc, 13, 3).

Ma quest’anno in maniera particolare la Quaresima sembra essere circondata da un’aurea “benedettina”. Infatti soltanto pochi giorni prima l’inizio del periodo più austero che la Chiesa conosca la Provvidenza ha disposto che incontrassimo sul nostro cammino la figura della sorella di San Benedetto, Santa Scolastica. Poche e scarne sono le notizie che abbiamo sul suo conto, eppure sappiamo l’essenziale. San Gregorio Magno ne descrive l’efficace e potente carità dicendo soltanto che «potè di più colei che più amò». E questo appare a noi oggi che ci incamminiamo per l’aspro sentiero quaresimale, figura di tutta la nostra vita terrena, una grande consolazione e un grande criterio d’azione che ci consentirà, con l’aiuto di Dio, di spingerci molto oltre nel glorioso viaggio della fede: l’amore vince gli ostacoli della carne, dell’anima e del mondo. Ragion per cui il dolore e il peso che da principio la penitenza volontaria, oltre a quella quotidianamente accettata, ci procura può essere davvero sublimato nell'amore del Cristo, motore e fondamento di ogni nostro essere ed agire. Affidandoci perciò a San Benedetto, tale di nome e di grazia, cingiamo i nostri fianchi per affrontare con cristiana virtù il santo e propizio tempo di Quaresima poiché “il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni. Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita secondo le parole dell’Apostolo: “Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione? Difatti il Signore misericordioso afferma: “Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (Prologo, XXXV-XXXVIII).

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