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Il senso della morte

Pubblichiamo di seguito un articolo ispirato, scritto da un membro e confratello della nostra Compagnia, in questo giorno dedicato alla Commemorazione dei fedeli defunti.

Pensavo ad oggi, alla Solennità dei Defunti, ricorrenza liturgica della Chiesa cattolica dimenticata e ignorata (vi basti pensare che in Università Cattolica oggi si sono tenute normalmente lezioni), come capita ormai a svariati aspetti della tradizione liturgica di questi tempi.

E proprio oggi mi è capitata sotto gli occhi una storia raccapricciante: quella di Joyce Carol Vincent.

Questa ragazza britannica, per una serie di ragioni di diverso ordine, scelse di staccare ogni filo diretto con il mondo circostante. Contatti recisi con familiari, amici d’infanzia, colleghi, ex-fidanzati, vicini di casa. Dopo essersi licenziata, Joyce abbandonò il centro di recupero per maltrattamenti in cui pernottava e iniziò a spostarsi di giorno in giorno in un appartamento diverso della periferia di Londra.Nessuno si accorse di quel corpo senza vita in quella casa di seconda mano nei cui pressi si spacciava droga e dove il rumore dell’apparecchio televisivo si mischiava al fragore degli schiamazzi notturni di qualche balordo.Nel 2003, in un pomeriggio di dicembre, dopo aver acquistato qualche regalo di Natale forse per i genitori con cui avrebbe voluto di nuovo scambiare una parola, Joyce inaspettatamente spirò, si ritiene per una complicazione dell’asma di cui soffriva da tempo. La televisione di fronte a lei rimase accesa, come il riscaldamento e l’elettricità pagata dall'assistenza sociale. Tutto in quella casa rimase tragicamente fermo mentre le spoglie della ragazza marcivano per settimane.

Soltanto a festività natalizie concluse qualcuno si accorse dei resti di Joyce; peccato che i Natali trascorsi fossero due.Il 25 gennaio 2006 gli ufficiali esecutori dello sfratto buttarono giù la porta della casa, e trovarono il macilento scheletro di Joyce rivolto verso un tappabuchi pomeridiano di un canale TV trasmesso senza sosta da oltre due anni.

Vedete, la storia di Joyce non è poi così diversa da quella di tutti noi: ciascuno muore da solo, che sia il padre mentre stringe sempre più flebilmente le mani del figlio, il fante d’Italia che agonizza dopo un futile assalto alla trincea durante la Grande Guerra e persino il Re nel cordoglio della sua intera corte. Nulla può impedire il sopraggiungere di questo evento, nessuna gloria, piacere prolungato, o onore può impedire quel rantolare che precede l’ultimo respiro. E parliamoci chiaro, non vi è alcuna dignità nel morire e nemmeno un senso proprio nell'aver vissuto per tramutarsi in un banchetto di vermi.

Vi è solo una cosa che può giustificare la Morte: la sua dirompente sconfitta avvenuta in un sepolcro della Palestina. Ed è questo, credetemi, l’unico pensiero che mi libera dall'angoscia suscitatami dalla storia di Joyce Vincent.La consapevolezza, la Fede contro ogni certezza empirica che, parafrasando Sant'Agostino, il milite ignoto caduto nell'Isonzo, il vecchio abbandonato in un ospizio, il senzatetto che ha lasciato questa vita nella fredda stazione di New York e la stessa Joyce deceduta nella dimenticanza totale di una società che erge l’Individuo ad assoluto ma la persona a zero, “guarda con i suoi occhi pieni di Gloria i nostri pieni di lacrime”.

A tutti i fratelli defunti.

Ma se la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo ci ha liberato dalla legge del peccato e della morte, perché dunque continuiamo a morire e non siamo stati immediatamente rivestiti d’immortalità?

Perché si compia la verità di Dio. {San Bernardo di Chiaravalle, Liber ad milites templi. De laude novae militiae}

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